Chi di globalizzazione ferisce, di globalizzazione perisce.
Per oltre mezzo secolo, gli Stati Uniti hanno incarnato il paradigma della globalizzazione: un modello economico fondato sull’esternalizzazione della produzione, la liberalizzazione dei mercati e la supremazia del capitale finanziario. Ma oggi, quel modello mostra segni evidenti di cedimento. La delocalizzazione industriale, un tempo celebrata come strategia vincente, si rivela ora una trappola sistemica che ha indebolito la resilienza produttiva del paese, aumentato le disuguaglianze e compromesso la sovranità economica.
Negli anni ’80, l’amministrazione Reagan ha inaugurato una stagione di profonda trasformazione economica, fondata su un impianto ideologico neoliberista che ha ridefinito il ruolo dello Stato, del mercato e della produzione industriale. Le politiche di Reaganomics—riduzione delle tasse, deregolamentazione, privatizzazioni e compressione della spesa pubblica—hanno avuto un impatto dirompente sulla struttura produttiva americana.
Suzanne Berger, politologa del MIT, ha analizzato con lucidità questo passaggio epocale. Secondo le sue ricerche, le grandi imprese statunitensi hanno abbandonato le strutture verticali integrate, che un tempo garantivano controllo diretto su progettazione, produzione e distribuzione, per affidarsi a una rete di subappalti e offshoring. Questa scelta, dettata dalla pressione dei mercati finanziari e dalla ricerca di profitti immediati, ha comportato una perdita di competenze industriali e una frammentazione del know-how produttivo.
Il processo di deindustrializzazione non si è limitato agli anni ’80. Come evidenzia William Bonvillian, docente al MIT e autore di Advanced Manufacturing: The New American Innovation Policies, tra il 2000 e il 2010 gli Stati Uniti hanno perso circa sei milioni di posti di lavoro manifatturieri, con la chiusura di oltre 60.000 stabilimenti. I settori più colpiti sono stati quelli a bassa intensità tecnologica, come il tessile e l’arredamento, dove la competizione con paesi a basso costo del lavoro—Cina, Vietnam, Messico—è stata devastante.
Bonvillian sottolinea che questa emorragia industriale ha avuto effetti sistemici: ha indebolito la capacità innovativa del paese, ha aumentato le disuguaglianze sociali e ha compromesso la resilienza economica. La delocalizzazione ha infatti interrotto il legame virtuoso tra ricerca, sviluppo e produzione, spingendo gli Stati Uniti verso un modello “innovate here, produce there” che ha finito per trasferire anche l’innovazione nei paesi produttori.
Le politiche neoliberiste degli anni ’80 hanno avviato un ciclo di smantellamento industriale che, nel lungo periodo, ha ridotto la sovranità produttiva americana. Le analisi di Berger e Bonvillian convergono su un punto cruciale: la perdita della manifattura non è solo economica, ma anche strategica e culturale. Rimettere al centro la produzione significa ripensare il rapporto tra mercato, Stato e società.
La globalizzazione ha agito come un potente catalizzatore per l’espansione economica degli Stati Uniti, ma ha anche generato una dipendenza strutturale da catene di approvvigionamento globali che oggi si rivela problematica. Microchip, antibiotici, terre rare, componenti elettronici: tutti beni strategici che gli USA non producono più in quantità sufficiente, affidandosi a fornitori esteri, spesso localizzati in aree geopoliticamente instabili o concorrenti diretti come la Cina. Questa vulnerabilità è emersa con forza durante la pandemia e le crisi geopolitiche recenti, quando le interruzioni logistiche hanno paralizzato interi settori industriali.
Anthony Elson, nel suo libro The United States in the World Economy, sostiene che l’economia americana ha tratto vantaggio dalla globalizzazione in termini di crescita aggregata e accesso a beni a basso costo, ma ha pagato un prezzo elevato in termini di disuguaglianze regionali e perdita di capacità produttiva interna. Le comunità industriali del Midwest, un tempo cuore pulsante della manifattura americana, sono state svuotate, mentre le aree urbane e finanziarie hanno prosperato. Elson sottolinea che il governo statunitense non ha fatto abbastanza per compensare gli effetti negativi della globalizzazione su quei lavoratori e territori che ne sono stati penalizzati.
Sul fronte dell’innovazione, Gene Grossman e Elhanan Helpman, nel loro studio Globalization and Growth pubblicato sull’American Economic Review, mostrano come l’integrazione internazionale abbia effetti ambivalenti. Da un lato, l’accesso a mercati più ampi aumenta il potenziale ritorno sugli investimenti in ricerca e sviluppo, incentivando l’innovazione. Dall’altro, la competizione globale può ridurre i margini di profitto e scoraggiare le imprese dal rischiare in settori ad alta intensità di ricerca, soprattutto se i benefici dell’innovazione vengono rapidamente assorbiti da concorrenti esteri. Il loro modello evidenzia come la globalizzazione possa sia accelerare la diffusione del sapere, sia comprimere gli incentivi alla sua produzione, a seconda del contesto istituzionale e della struttura dei mercati.
La globalizzazione ha reso gli Stati Uniti più ricchi sul profilo finanziario ma meno autonomi, più interconnessi ma anche più esposti.
Il fenomeno del reshoring negli Stati Uniti, pur rappresentando una svolta strategica nella politica industriale, si scontra con una realtà tecnologica che ne limita l’impatto occupazionale. Ruth Strachan, giornalista di Investment Monitor, ha evidenziato come il ritorno della produzione sul suolo americano sia trainato soprattutto da settori ad alta automazione, dove la presenza umana è sempre più marginale. La produzione di semiconduttori ne è l’esempio emblematico: le fabbriche di chip, come quelle costruite da TSMC in Arizona o da Micron a New York, sono ambienti iper-tecnologici, dominati da robotica avanzata, sistemi di visione artificiale e processi automatizzati che riducono drasticamente il fabbisogno di manodopera tradizionale.
Secondo IBM e il World Economic Forum, l’automazione industriale è destinata a sostituire milioni di posti di lavoro manuali, ma al tempo stesso ne creerà di nuovi, più qualificati, legati alla gestione, manutenzione e progettazione dei sistemi automatizzati. Tuttavia, il passaggio non è neutro: richiede investimenti massicci in formazione, riconversione professionale e infrastrutture digitali. Il rischio, come sottolinea anche il Manufacturing Institute, è che il reshoring generi una crescita industriale senza inclusione sociale, accentuando il divario tra lavoratori altamente qualificati e quelli espulsi dai processi produttivi tradizionali.
La robotizzazione della produzione, inoltre, ha un impatto diretto sulla geografia del lavoro. Le nuove fabbriche non si insediano più nei distretti industriali storici, ma in aree con incentivi fiscali, accesso a energia a basso costo e vicinanza a hub tecnologici. Questo spostamento territoriale può svuotare ulteriormente le comunità operaie del Midwest, già colpite dalla deindustrializzazione degli anni ’80 e ’90.
Il reshoring americano è un processo guidato più dalla logica della sicurezza strategica e della resilienza delle filiere che da una volontà di ricostruzione sociale. Senza una politica attiva di redistribuzione delle competenze e di inclusione lavorativa, rischia di diventare un’operazione di facciata: produzione sì, ma senza lavoro.
Immanuel Wallerstein, con la sua teoria del sistema-mondo, ha offerto una delle letture più radicali e storicamente fondate della globalizzazione. Secondo Wallerstein, il mondo moderno non è composto da economie nazionali autonome, ma da un’unica economia capitalista globale che si articola in centri, semi-periferie e periferie. I paesi del centro—storicamente l’Europa occidentale e poi gli Stati Uniti—accumulano ricchezza attraverso lo sfruttamento sistemico delle periferie, che forniscono materie prime, manodopera a basso costo e mercati dipendenti. La globalizzazione, in questa prospettiva, non è un processo neutro né spontaneo, ma il risultato di dinamiche storiche di dominio economico e politico che perpetuano le disuguaglianze globali.
Carl Strikwerda, nel suo saggio From World-Systems to Globalization pubblicato su American Studies, ha criticato l’equazione tra globalizzazione e americanizzazione. Secondo lui, ridurre la globalizzazione alla diffusione di modelli culturali e istituzionali statunitensi è fuorviante e pericoloso. Il modello americano, basato su consumismo, deregolamentazione e egemonia finanziaria, ha generato instabilità sistemica più che progresso condiviso. Strikwerda propone una visione più sfumata, in cui la globalizzazione è il risultato di interazioni complesse tra forze economiche, politiche e culturali, e non di un’unica traiettoria imposta da Washington.
Kalim Siddiqui, economista dello sviluppo, ha analizzato con rigore gli effetti della deregolamentazione finanziaria e della delocalizzazione sull’economia statunitense. In diversi studi e articoli, tra cui The Reasons Behind the Decline of the United States Economy pubblicato su World Financial Review, Siddiqui sostiene che le politiche neoliberiste adottate dagli anni ’80 in poi abbiano creato vulnerabilità strutturali: la perdita di milioni di posti di lavoro manifatturieri, la dipendenza da importazioni strategiche, l’aumento del debito pubblico e la stagnazione della produttività. La delocalizzazione ha svuotato il tessuto industriale americano, mentre la deregolamentazione ha favorito crisi come quella del 2008, senza generare una ripresa sostenibile.
Questi tre studiosi convergono su un punto cruciale: la globalizzazione non è un processo spontaneo né universalmente benefico. È una costruzione storica e politica, che ha favorito alcuni attori a scapito di altri, e che oggi mostra i suoi limiti strutturali.
Negli ultimi anni, la minaccia quotidiana di nuovi dazi da parte di Donald Trump ha reso ancora più evidente la fragilità del modello americano di globalizzazione. Il ritorno aggressivo al protezionismo, con tariffe minime del 10% su tutte le importazioni e picchi fino al 145% su quelle provenienti dalla Cina, non è solo una misura economica: è una dichiarazione politica che mira a ridefinire i rapporti commerciali globali secondo una logica bilaterale e punitiva.
Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics, ha sottolineato come questa disconnessione dagli scambi globali non solo non abbia ridotto le disuguaglianze, ma le abbia aggravate. Le tariffe imposte da Trump, secondo il Penn Wharton Budget Model, potrebbero ridurre il PIL statunitense del 6% nel lungo periodo e abbassare i salari del 5%, con una perdita media di $22.000 per famiglia a reddito medio. Questi numeri non sono semplici proiezioni: sono il riflesso di una strategia che sacrifica la resilienza economica sull’altare della sovranità commerciale.
La retorica trumpiana, che promette un ritorno alla produzione nazionale, si scontra con una realtà industriale profondamente trasformata. La produzione di semiconduttori, ad esempio, è ormai quasi completamente automatizzata, e il reshoring non genera occupazione significativa per la classe media. Inoltre, le tariffe non incentivano investimenti strutturali, ma aumentano l’incertezza economica, spingendo le imprese a rimandare decisioni cruciali su assunzioni e innovazione.
Il protezionismo di Trump non è una novità, ma oggi assume una forma più sistematica e quotidiana. Ogni annuncio di nuovi dazi genera volatilità nei mercati, tensioni diplomatiche e reazioni a catena da parte di partner commerciali. La Cina, l’Unione Europea e il Canada hanno già risposto con misure di ritorsione, alimentando una spirale che rischia di paralizzare il commercio globale.
In questo contesto, il ripensamento del modello americano non può limitarsi a una semplice inversione di rotta. Serve una visione nuova, che metta al centro la resilienza produttiva, la giustizia sociale e una cooperazione multilaterale capace di affrontare le sfide del XXI secolo. La globalizzazione non può essere abbandonata, ma deve essere riformata. E gli Stati Uniti, se vogliono evitare di perire della stessa spada con cui hanno ferito, devono smettere di brandirla come strumento di potere e iniziare a usarla come leva di equilibrio.
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