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Dal banco di scuola alla sala riunioni: l’arte dimenticata di vedere il quadro intero

Dal banco di scuola alla sala riunioni: l’arte dimenticata di vedere il quadro intero

C’è un momento, spesso impercettibile, in cui smettiamo di chiederci “perché?” e iniziamo a chiederci solo “come?”. Succede tra un compito in classe e il primo stage, tra un’interrogazione di storia e il primo badge aziendale. È lì che rischiamo di trasformarci in esecutori perfetti, ma ciechi. Bravissimi a fare, ma incapaci di capire davvero dove siamo, perché ci siamo e, soprattutto, dove stiamo andando.

Il mercato del lavoro oggi non ha bisogno solo di braccia o di menti brillanti che risolvono problemi su richiesta. Ha fame di occhi curiosi, di persone che sappiano leggere l’organizzazione come si legge un romanzo: cogliendo i personaggi, certo, ma anche le trame nascoste, i non detti, le logiche che muovono tutto. Perché ogni azienda è un ecosistema, non un foglio Excel. E chi sa interpretarlo, chi riesce a vedere oltre il proprio ruolo, ha in mano una bussola preziosa.

C’è un equivoco di fondo che ci portiamo dietro dai tempi della scuola: l’idea che basti fare bene il proprio compito per essere a posto. Che se esegui con precisione, se rispetti le consegne, se non sbagli i conti, allora sei “bravo”. E invece no. O meglio: non basta. Perché il mondo del lavoro non è un’interrogazione di matematica. È più simile a un romanzo di Dostoevskij: pieno di personaggi contraddittori, trame nascoste, colpi di scena e qualche pagina che non si capisce subito, ma che poi torna.

Essere dei buoni esecutori è utile, certo. Ma oggi è solo il punto di partenza. Quello che fa davvero la differenza è la capacità di leggere l’organizzazione in cui ci si muove. Non solo le persone – che pure sono importanti – ma le logiche, le strutture, le dinamiche invisibili che regolano il tutto. È un esercizio di intelligenza, sì, ma anche di crescita personale. Perché ti obbliga a uscire dal tuo perimetro, a guardare oltre la tua scrivania, a chiederti: Perché qui si fa così? Chi decide davvero? Cosa succede se cambio questo piccolo dettaglio?

Essere semplici esecutori è comodo. Si riceve un compito, lo si svolge, si passa al successivo. Ma è anche pericoloso. Perché se non si comprende il contesto, si rischia di lavorare benissimo… nella direzione sbagliata. O di non accorgersi che il contesto è cambiato, e noi siamo rimasti fermi.

Chi sviluppa una visione sistemica diventa un osservatore attivo. Sa cogliere i segnali deboli, anticipare le trasformazioni, collegare i puntini. E questo non significa essere dei manager o dei leader nel senso tradizionale. Significa essere consapevoli. Significa sapere che ogni azione ha un impatto, che ogni decisione si inserisce in una rete di relazioni e conseguenze.

Il filosofo Gregory Bateson parlava di “ecologia della mente”, e invitava a pensare in termini di sistemi, di connessioni, di relazioni. In un’organizzazione, nulla è isolato. Ogni gesto, ogni decisione, ogni silenzio ha un effetto a catena. E chi riesce a cogliere queste connessioni non solo lavora meglio: diventa un punto di riferimento. Perché sa leggere il contesto. E chi legge il contesto, spesso, lo anticipa.

Ma questa capacità non si improvvisa. Non si accende come un interruttore il primo giorno di lavoro. Si costruisce nel tempo. E, idealmente, dovrebbe iniziare a scuola. Già lì si dovrebbe imparare a osservare, a collegare, a interpretare. Invece, troppo spesso, si insegna a stare al proprio posto, a non disturbare, a rispondere esattamente come ci si aspetta. Il pensiero critico? Rimandato a data da destinarsi. La curiosità? Tollerata, ma solo se non fa perdere tempo.

Eppure, come diceva Albert Einstein, “l’immaginazione è più importante della conoscenza”. E io aggiungerei: la comprensione è più importante dell’esecuzione. Perché puoi anche sapere tutto, ma se non capisci dove sei e perché fai quello che fai, rischi di essere bravissimo… ma irrilevante.

Nel mondo del lavoro, questo si traduce in una differenza abissale tra chi “fa il suo” e chi “vede il tutto”. Il primo è efficiente, il secondo è strategico. Il primo aspetta istruzioni, il secondo le anticipa. Il primo si adatta, il secondo trasforma. E ripeto, non serve essere manager per avere questa visione: serve solo allenare lo sguardo.

Allenarlo a cogliere le dinamiche di potere non scritte, le abitudini che nessuno mette in discussione, le incoerenze tra ciò che si dice e ciò che si fa. Allenarlo a capire che ogni organizzazione è un organismo vivo, con le sue regole, i suoi anticorpi, le sue nevrosi. E che per navigarlo, serve più empatia che un foglio di calcolo.

La buona notizia? Si può imparare. Basta iniziare a farsi domande. A scuola, al lavoro, ovunque. Basta smettere di pensare che il nostro compito sia solo “fare bene” e iniziare a chiederci “che senso ha quello che sto facendo?”. Perché, come scriveva Italo Calvino, “prendere la vita con leggerezza non vuol dire superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. E per planare, serve visione.

Quindi no, non basta essere bravi. Bisogna essere curiosi. Bisogna essere lettori attenti del contesto. Bisogna avere il coraggio di guardare l’organizzazione non solo come un insieme di persone, ma come un sistema complesso, affascinante, a volte assurdo, ma sempre pieno di significato. E magari, ogni tanto, anche di creatività.

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