Il lato invisibile della Visibilità
Ricordo bene i primi anni di istruzione, nelle aule luminose delle scuole pugliesi, quando il modello sembrava chiaro e condiviso. Alzare la mano, farsi notare, rispondere alle domande era come trovarsi nel salotto borghese di Pirandello, dove le maschere erano già pronte e indossarle significava aderire a un copione rassicurante. Quel gesto semplice, quasi automatico, era un rituale che i docenti apprezzavano, un segnale di partecipazione che dava forma alla nostra identità. In quel contesto la visibilità non era una strategia ma un comportamento premiato. Chi interveniva di più veniva percepito come più preparato, più sicuro, più bravo. Io stesso inseguivo quel gradimento, convinto che fosse la strada giusta.
Poi è arrivata l’università e il ruolo è cambiato. Non bastava più alzare la mano, quel gesto che alle scuole pugliesi sembrava aprire porte ora era solo un battito d’ali in un cielo più vasto. Il pensiero doveva essere strutturato come un edificio che regge il peso delle sue colonne, le affermazioni non potevano essere semplici intuizioni ma archi sorretti da argomenti solidi. Non era più sufficiente partecipare, bisognava dimostrare di aver scavato, di aver compreso, di saper collegare come fili invisibili in un tessuto complesso.
In quel passaggio ho capito che la visibilità non è solo un gesto ma una responsabilità. Esporsi significa assumersi il peso di ciò che si dice, come chi sale sul solito palcoscenico pirandelliano e scopre che la maschera non basta. Dietro c’è la persona, con la sua storia, le sue letture, le sue esperienze. Ogni parola diventa una promessa di coerenza, un ponte che non deve crollare sotto il passo di chi lo attraversa.
Fu allora che iniziò per me una vita politica e divenni rappresentante degli studenti della facoltà di Sociologia. Era il mio ingresso nel mondo degli adulti, il primo varco verso dinamiche che non avevano più il sapore rassicurante delle aule scolastiche. Arrivarono i primi schiaffi, non fisici ma simbolici, i primi confronti con registri linguistici lontani dal mio, con logiche che non si piegavano alla spontaneità. Ogni parola diventava una moneta di scambio, ogni silenzio un rischio calcolato. Era come passare da un giardino ordinato a un labirinto di specchi, dove la visibilità non era più un premio ma una sfida che poteva riflettere grandezza o fragilità.
Avevo quasi ventitré anni quando varcai la soglia del mio primo vero ufficio, davanti a quelli che consideravo mostri sacri del management barese e italiano. Era come entrare in una cattedrale dove ogni parola pesava come pietra e io ero lì con le mani ancora sporche di calce, pronto a imparare come si costruiscono muri che reggono il tempo. Da quel momento le esperienze sono diventate più solide ma le mie autonomie erano tutte da conquistare. Ogni decisione era un passo su un ponte sospeso, ogni errore un vento che poteva farlo oscillare.
Non sono mai stato uno di quelli che sostiene “meglio restare nella propria parte”. Credo che prendere parola e farsi vedere sia importante. Ma ho imparato che non è un atto neutro, dietro c’è la necessità di costruire, di crescere, di non ridurre la visibilità a un esercizio di stile. Se manca la sostanza il rischio è di trasformare la ricerca di attenzione in una corsa vuota che logora più di quanto arricchisca. La visibilità in quel contesto era come una luce che poteva scaldare o bruciare, dipendeva da quanto era fertile il terreno sotto i miei piedi.
Da allora ho compreso che emergere non è mai solo una questione di coraggio ma di equilibrio tra il dire e il fare, tra il mostrarsi e il costruire. È un viaggio che parte dai banchi di scuola, attraversa le aule universitarie e arriva nelle stanze dove si decide davvero. In ogni fase la visibilità cambia volto, da rituale rassicurante diventa sfida, da sfida diventa responsabilità. Una responsabilità che non si improvvisa ma si conquista giorno dopo giorno con fatica, con errori, con la consapevolezza che dietro ogni parola c’è una storia che deve reggere il peso del tempo.
Oggi nel mondo del lavoro questa dinamica è ancora più evidente. La visibilità è diventata una competenza, quasi una qualità distintiva, come se fosse una lingua che bisogna saper parlare per essere ascoltati. Non tutti la possiedono e non tutti la desiderano. Io stesso mi chiedo spesso quanto sia sano inseguirla, quanto ci aiuti davvero a crescere e quanto invece ci spinga a vivere sotto pressione, a misurare il nostro valore in base alla luce che riceviamo.
Con il tempo ho imparato a guardare questa realtà con occhi diversi. Non ho mai criticato chi sceglie di non emergere, anzi ho sempre premiato chi lavora con dedizione lontano dai riflettori. Forse perché in parte è successo anche a me. Ci sono stati momenti in cui la mia visibilità si è attenuata e ho scoperto che non era una perdita ma un’opportunità per consolidare competenze e maturare. Con l’età certe dinamiche si sono sfumate, diventando più ponderate, più mature ma anche più performanti. Non è più una corsa per apparire ma un esercizio di equilibrio tra ciò che si mostra e ciò che si costruisce.
E qui ritorna Pirandello con le sue maschere. All’inizio pensavo che bastasse indossarne una per essere riconosciuto, per entrare nel gioco. Ma col tempo ho capito che la maschera non regge se dietro non c’è sostanza. La visibilità è una maschera che può proteggere o tradire. Se è vuota si frantuma al primo urto, se è sostenuta da contenuto diventa trasparente, lasciando intravedere la verità di chi siamo.
C’è però un aspetto che non posso ignorare. C’è chi di visibilità mancata si ammala. L’assenza di riconoscimento può generare frustrazione, senso di inutilità, persino depressione. Per questo credo sia fondamentale costruire spazi di ascolto e valorizzazione, dove il merito non sia misurato solo dalla luce che si riceve ma dalla qualità del contributo. Serve una cultura che premi la sostanza, che dia voce anche a chi non ama i riflettori e che insegni a tutti che il valore non si esaurisce nell’apparenza. Serve soprattutto, un’azione personale, di auto misurazione e controllo.
Forse la risposta sta proprio lì. Emergere sì ma senza perdere autenticità, senza dimenticare che il vero riconoscimento nasce dalla sostanza e non dall’apparenza. La visibilità se non è sostenuta da contenuto rischia di trasformarsi in un fuoco di paglia. Brilla, scalda per un istante ma poi lascia solo cenere. La vera forza invece è quella che resiste nel tempo, che non ha bisogno di clamore per esistere.
E oggi più che mai il futuro appartiene a chi sa dosare luce e ombra, parola e silenzio, presenza e profondità.
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