Un altro giro di giostra è possibile
C’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui oggi consumiamo immagini. Non le guardiamo più, le ingoiamo. Le scorriamo con il pollice come fossero caramelle visive, una dopo l’altra, senza nemmeno assaporarle. E mentre lo facciamo, eccoci lì: strampalati che guardano strampalati, tutti piegati su uno smartphone, con lo sguardo perso in un altrove che non ci appartiene.
Il mondo non si è fermato, ma ha cambiato direzione senza avvisarci. Non si cerca più il significato, si cerca il filtro giusto. Non si vive per raccontare, si racconta per sembrare di vivere. Ogni gesto, ogni pensiero, ogni emozione è potenzialmente un contenuto. Ma cosa resta quando il contenuto si svuota del suo contenuto? Quando l’immagine diventa più importante dell’esperienza che dovrebbe rappresentare?
Siamo diventati spettatori di noi stessi. Ci osserviamo mentre ci osservano. E in questo gioco di specchi, il confine tra essere e apparire si dissolve. Vogliamo essere visti, più che capiti. Vogliamo piacere, più che esistere. Eppure, sotto questa superficie levigata, qualcosa scricchiola. Una nostalgia. Un bisogno. Un vuoto.
È qui che Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani torna a parlarci, con la voce calma di chi ha visto il mondo e ha capito che non basta guardarlo, bisogna viverlo nonostante un compagno sgradito come il Cancro. Terzani non si è mai accontentato dell’apparenza. Ha cercato il senso, anche quando faceva male. Ha scelto di rallentare, di ascoltare, di dubitare. E nel farlo, ha tracciato una via che oggi sembra rivoluzionaria: quella dell’autenticità.
Il suo giro di giostra non è stato un’esibizione, ma un pellegrinaggio. Non ha cercato di mostrarsi, ma di comprendersi. E ci ha lasciato un messaggio che oggi suona come un invito urgente: smettiamo di correre verso il nulla. Torniamo a guardarci negli occhi, a fare domande scomode, a vivere esperienze che non hanno bisogno di essere postate per avere valore.
Un altro giro di giostra è possibile. Ma bisogna scendere da quello attuale, quello che gira troppo veloce, quello che ci fa girare la testa senza portarci da nessuna parte. Bisogna scegliere di essere, anche quando nessuno guarda. Anche quando non c’è campo. Anche quando il mondo sembra preferire il rumore all’ascolto.
Al lavoro, un altro giro di giostra è possibile solo se smettiamo di pensare che la giostra sia un tapis roulant.
Il lavoro oggi è spesso una corsa a ostacoli mascherata da routine. Si entra, si produce, si risponde, si performa. E intanto si perde il senso. Si perde il perché. Si perde il gusto. Ma Terzani ci insegna che anche dentro le strutture più rigide si può fare spazio al dubbio, alla ricerca, alla lentezza. Non serve mollare tutto e andare in Tibet (anche se, ammettiamolo, l’idea è tentatrice). Serve cambiare sguardo.
Un altro giro di giostra al lavoro significa smettere di vivere per il curriculum e iniziare a vivere per la biografia. Significa chiedersi: sto crescendo o sto solo avanzando? Sto imparando qualcosa o sto solo accumulando task? Sto contribuendo o sto solo obbedendo?
È possibile se si accetta di portare dentro l’ufficio un po’ di sé, non solo il badge. Se si osa dire “non lo so”, “non mi convince”, “ci penso su”. Se si smette di fingere entusiasmo e si comincia a cercare senso. Se si guarda il collega non come un competitor ma come un compagno di viaggio. Se si accetta che anche il lavoro può essere un luogo di trasformazione, non solo di transazione.
Terzani ci direbbe che ogni giorno può essere un giro di giostra, anche quello in cui si timbra il cartellino. Basta non dimenticare che la giostra gira, ma siamo noi a decidere come starci sopra: aggrappati, distratti, o con gli occhi aperti e il cuore curioso.
Portare dentro l’ufficio un po’ di sé non è un atto di ribellione, ma di responsabilità. Non è un manifesto del dissenso, né una romantica fuga dalla professionalità. È, al contrario, il modo più concreto per manifestarla. Perché la professionalità non è solo rispetto delle procedure, puntualità, efficienza. È anche presenza, autenticità, capacità di orientarsi nel complesso, di scegliere con consapevolezza, di dare forma al proprio contributo senza rinunciare alla propria voce.
Dire “non lo so” non è debolezza, è maturità. Significa riconoscere i propri limiti per poterli superare. Dire “non mi convince” non è opposizione sterile, è esercizio critico, è cura per ciò che si fa. Dire “ci penso su” non è lentezza, è profondità. È il rifiuto di risposte automatiche, è il tempo che si prende per dare valore alle decisioni.
Guardare il collega come un compagno di viaggio significa uscire dalla logica della competizione e entrare in quella della collaborazione. Significa riconoscere che il lavoro non è una corsa solitaria, ma un percorso condiviso, dove le differenze non sono ostacoli ma risorse. Dove il successo non si misura solo in obiettivi raggiunti, ma anche in relazioni costruite, in fiducia generata, in senso condiviso.
Accettare che il lavoro può essere un luogo di trasformazione significa smettere di viverlo come una parentesi tra il tempo libero e la vita vera. Significa riconoscere che anche lì, tra una riunione e una scadenza, si può crescere, si può cambiare, si può imparare. Che anche lì si può essere interi, non solo funzionali.
Questo non è un invito a disertare le regole, ma a viverle con intelligenza. Non è un elogio dell’improvvisazione, ma della riflessione. Non è una critica al sistema, ma una proposta per abitarlo con più umanità.
Un altro giro di giostra è possibile anche al lavoro, se si accetta di salire con tutto ciò che si è, non solo con ciò che si deve essere.
E allora sì, forse saremo ancora strampalati, con lo sguardo storto e le idee in tasca. Ma almeno saremo presenti, non solo connessi. E questo, oggi, è già una rivoluzione. Leggere Un altro giro di giostra è come uscire dal rumore e rientrare nel pensiero: non per evadere, ma per capire dove stiamo andando.
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