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Pasolini e “La tosse del lavoro”

Pasolini e “La tosse del lavoro”

A cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ritrovo a camminare tra le sue parole come si cammina in una città che si conosce bene, ma che ogni volta rivela un angolo nuovo, una crepa nel muro, un volto diverso. Il suo pensiero sul lavoro non è mai stato lineare, né tantomeno rassicurante. È un pensiero che graffia, che interroga, che si sporca le mani. Pasolini non ha mai parlato del lavoro come semplice attività produttiva, ma come specchio di una trasformazione profonda, antropologica, che ha investito l’Italia del dopoguerra e l’ha trascinata verso un modello di vita che lui non ha mai smesso di contestare.

Ricordo ancora con chiarezza il momento in cui, dopo le timide letture adolescenziali, qualche poesia, qualche frammento rubato da Ragazzi di vita, mi imbattei davvero in Pasolini. Fu all’università, durante un corso che non avrei mai pensato potesse portarmi a lui: Storia del Pensiero Economico. Sembrava strano, quasi fuori luogo. Eppure, fu proprio lì che scoprii quanto il suo pensiero fosse determinante, quanto fosse stato avveniristico per i tempi moderni. Il docente, con una passione che raramente si incontra, ci parlò di Pasolini come di un economista eretico, un pensatore che aveva anticipato la critica al consumismo, alla mercificazione dell’identità, alla trasformazione del cittadino in consumatore. Non era solo letteratura, non era solo cinema: era analisi economica, sociale, antropologica. Anticipazione dei tempi.

Nei suoi scritti, la tensione tra il lavoro come necessità e il lavoro come condanna emerge con una forza che non lascia indifferenti. Ricordo in particolare un testo che mi colpì profondamente: La tosse dell’operaio, pubblicato nel 1969. Non è una poesia nel senso tradizionale, eppure lo è. È un articolo, sì, ma vibra come un verso, pulsa come un corpo che respira a fatica. L’operaio tossisce sotto il sole, e quel suono, apparentemente insignificante, quotidiano, si insinua nel silenzio borghese di un giardino al piano di sopra. È lì che Pasolini compie il suo gesto poetico e politico: trasforma un rumore in simbolo, una tosse in denuncia.

Quella tosse non è solo sintomo di malattia, è il respiro spezzato di chi lavora senza tregua, di chi non ha diritto al riposo. “La vita per lui è rimasta decisamente scomoda; non l’aspetta nessun riposo…” scrive Pasolini, e in quella frase c’è tutta la crudezza di una condizione che non è solo sociale, ma esistenziale. Il lavoro diventa isolamento, sacrificio, una forma di eroismo silenzioso che nessuno celebra. Non c’è retorica, non c’è idealizzazione: c’è solo la realtà nuda, quella che si consuma nei corpi, nei gesti, nei suoni che la società preferisce ignorare.

Leggere quel testo, per me, fu come aprire una finestra su un mondo che avevo sempre visto ma mai davvero ascoltato. Pasolini non descrive il lavoro: lo fa sentire. E in quel sentire, in quel vibrare della parola, c’è già una forma di resistenza. Perché dare voce a chi lavora in silenzio è, in fondo, il primo atto di giustizia.

Nel suo cinema, il lavoro non è protagonista. Anzi, spesso è assente, o meglio, è rifiutato con una radicalità che lascia il segno. Ricordo con nitidezza la sera in cui vidi Accattone per la prima volta, al cinema Nuova Luce di Urbino. Era una proiezione universitaria, una di quelle che sembrano quasi nascoste, lontane dai circuiti ufficiali, eppure capaci di lasciare un’impronta profonda. Entrai con curiosità, ne uscii turbato. Quel film non raccontava solo una storia: metteva in discussione un intero sistema di valori.

Vittorio, detto Accattone, vive ai margini, non lavora, non vuole lavorare. Ma non è un fannullone, non è un personaggio da compatire: è un ribelle. Il suo rifiuto non nasce da pigrizia, ma da una consapevolezza profonda, quasi istintiva. Sa che il lavoro, in quel contesto, non è liberazione, ma schiavitù. Non è dignità, ma sottomissione a un sistema che lo vuole docile, produttivo, omologato.

Pasolini lo sa, e lo mostra senza moralismi. Accattone non è un eroe, ma è autentico. Vive in una realtà che non ha ancora ceduto del tutto alle logiche del consumo, dove la vita pulsa ancora in modo disordinato, sporco, vero. Il sottoproletariato romano diventa così il luogo dove il lavoro non è stato addomesticato, dove la sopravvivenza si gioca giorno per giorno, senza garanzie, senza maschere. E proprio in quel caos, in quella precarietà, Pasolini trova una forma di resistenza. Una resistenza disperata, certo, ma vera. Perché rifiutare il lavoro, in quel mondo, significa rifiutare di essere ingranaggio, significa rivendicare, anche solo per un attimo, la propria libertà.

Guardando Accattone con gli occhi di oggi, mi rendo conto che il mondo del lavoro, almeno in Occidente, è profondamente cambiato. Le dinamiche produttive si sono trasformate, il lavoro è diventato sempre più immateriale, flessibile, spesso frammentato. Non si parla più di fabbriche, ma di piattaforme; non più di turni, ma di algoritmi. Eppure, qualcosa di quel rifiuto pasoliniano continua a risuonare. Perché, al di là delle forme, restano le tensioni: tra chi produce e chi consuma, tra chi è dentro e chi è ai margini, tra chi lavora per vivere e chi vive per lavorare.

Pasolini ci ricorda che dietro ogni sistema economico c’è una visione dell’uomo. E che il lavoro, per quanto trasformato, continua a essere un luogo di conflitto, di identità, di resistenza. Non è più il lavoro di Accattone, certo, ma non è nemmeno del tutto libero, in qualsiasi latitudine del mondo. E forse, proprio per questo, le sue parole ci aiutano ancora a pensare, a dubitare, a cercare un senso più profondo in ciò che facciamo ogni giorno.

Pasolini ha sempre avuto paura del lavoro come ideologia. Lo dice chiaramente nei suoi Scritti corsari, dove denuncia la trasformazione del cittadino in consumatore. Il lavoro, in questa nuova società, non è più legato alla terra, alla fatica, alla comunità. È diventato un mezzo per produrre desideri, per omologare, per spersonalizzare. “Chi di noi assomiglia a un tecnico americano o a una guardia rossa cinese?”, si chiede. E in quella domanda c’è tutto il suo disagio verso un mondo che pretende efficienza, collettività, produttività, ma che perde l’anima.

La sua nostalgia non è mai stata passatismo. È stata ricerca di autenticità. “Tutto il mio lavoro è nostalgia”, diceva. Ma non era la nostalgia dei vecchi tempi, era la nostalgia di un’umanità che il lavoro moderno stava cancellando. Il lavoro, per Pasolini, era anche linguaggio, era gesto, era cultura. Era il contadino che conosceva la terra, l’artigiano che parlava con le mani, il ragazzo di borgata che viveva il tempo come un’attesa. Tutto questo stava scomparendo, e lui lo gridava con rabbia e con amore.

Oggi, mentre il mondo corre verso nuove forme di lavoro, sempre più digitali, sempre più invisibili, le parole di Pasolini tornano a farsi sentire. Ci ricordano che il lavoro non è solo produzione, ma è anche identità, relazione, memoria. Ci invitano a guardare ai margini, a chi lavora senza voce, a chi lavora senza nome. E ci chiedono, forse, di ritrovare nel lavoro una forma di resistenza, una possibilità di essere umani.

E ciò che colpisce, ancora oggi, è come il pensiero di Pasolini riesca a sfuggire alle etichette. Indipendentemente dalla sua estrazione culturale, dalla sua posizione ideologica e politica. Conteso a più riprese tra destra e sinistra italiana, tra cattolici e non credenti, tra chi lo ha amato e chi lo ha temuto. Pasolini resta un autore che appartiene a tutti. Non si lascia rinchiudere in uno schieramento, non si presta a semplificazioni. È scomodo, è profondo, è universale. E proprio per questo, tutte le generazioni dovrebbero leggerlo.

In un tempo che cambia, in un mondo che corre, la sua voce continua a parlare con una chiarezza che non ha bisogno di tempo per essere compresa. Basta ascoltarla.

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